Scritto tra il 6 e il 7 luglio 1890 e pubblicato sul numero di gennaio 1892 del The New England Magazine, The Yellow Wallpaper narra la storia di una donna costretta a fare quello che il marito (e suo medico) impone, anche se il trattamento che le prescrive è in diretto contrasto con ciò di cui lei avrebbe veramente bisogno: stimoli mentali, lavoro, socialità e la libertà di sfuggire alla monotonia della stanza (vita) in cui è intrappolata.
Il racconto mette in scena una prigionia intollerabile che però sfocia in una presa di coscienza capace di aprire uno spiraglio verso la conquista della libertà attraverso la consapevolezza, a sostegno di come il riscatto e la rottura di schemi inaccettabili non possano essere fermati neanche dalla più oppressiva delle costrizioni.
Il modo con cui alle donne fossero attribuite certe caratteristiche, certe predisposizioni e addirittura certi doveri nel ruolo di coppia: confortare, appoggiare, dare sollievo mantenendo una posizione sottomessa e di obbedienza, avevano un’influenza fondamentale sulla limitata possibilità di percepire sé stesse, dato che tali caratteristiche erano considerate doti indispensabili e assolutamente non negoziabili. Uno scenario non così diverso da quello che vediamo ancora ai nostri giorni. Motivo per cui questo testo è, a tratti, incredibilmente attuale.
Charlotte Perkins Gilman ha passato tutta la sua esistenza di scrittrice e conferenziera a ribadire come la mancanza di autonomia delle donne vada a detrimento del loro benessere mentale, emotivo e perfino fisico. Attraverso la scrittura, che divenne, nel suo caso, espressione potente di un nuovo essere e, al tempo stesso, luogo di rifugio e rifiuto, Charlotte si è ribellata alle regole del suo tempo. Ha saputo tradurre in alta letteratura quelli che, allora, erano i grossi vincoli vissuti dalle donne, non considerate parte attiva e produttiva nella società civile.
The Yellow Wallpaper, oltretutto, fu una sfida aperta al medico che aveva proposto e applicato la “rest cure” come rimedio alla depressione post-partum, il Dr. Silas Weir Mitchell, a cui lei mandò una copia del racconto. Non ottenne mai risposta, ma due anni dopo, a seguito anche di alcuni casi di suicidio, la “cura” venne ritirata, seppur senza motivazioni specifiche.
L’adattamento curato da Lisa Gino si focalizza sulla relazione uomo-donna, su come certi meccanismi mentali siano duri da sradicare e da combattere. Siamo ancora chiuse in stanze dalle quali è spesso difficile uscire, ma che solo noi possiamo decidere di abbandonare o di trasformare in luoghi di libertà.