E’ il 1979, una calda sera di luglio, io ho 9 anni, abito al settimo piano di un palazzo e al nono abita il mio amico Alain. E’ tutto tranquillo, ovattato, tipico delle sere d’estate, l’odore di asfalto caldo è penetrante, la gente sta rincasando per preparasi a cenare. All’improvviso dei colpi rompono quell’atmosfera molle e appiccicosa, sono strani rumori, mia madre dice che sono petardi, ma io pronta e sicura le rispondo: no, sono pistole. Mia madre insiste, allora io mi affaccio al balcone per mostrarle che ho ragione, lei mi tira dentro, nel largo davanti al palazzo ci sono persone che corrono, intravedo un lampo arancione, ancora un colpo, poi niente. Poi il balcone è chiuso. Alain e sua madre sono fuori, al parco giochi. Qualcuno sta sparando per strada. La nonna di Alain è in preda al panico. Non so come sono venuta a sapere tutto questo. Passiamo minuti interminabili aspettando che tornino e sperando non siano rimasti feriti. Che cosa è successo non lo saprò mai esattamente. Tornano. Sono salvi. A Torino in quegli anni è così: si spara. E io abito al confine con “la barriera”. Dopo pochi mesi lascio Torino, mi trasferisco in un remoto paesino di montagna. Torno ad abitare a Torino finita la maturità, nel 1989, dieci anni dopo quella sera. Una delle mie prime letture rientrata in città è “Io, l’infame” di Patrizio Peci. E li, tra le pagine di quel libro, inizio a mettere insieme i tasselli di tanti discorsi a bassa voce, sentiti qua e là a spizzichi e bocconi, inizio a capire cos’era la mia città quando ero bambina, quel periodo di cui il mio ricordo più vivo è l’odore di smog e cemento, il colore grigio e la libertà di giocare a nascondino nei garages sotterranei. Chi è nato 10 anni prima di me ha tutt’altri ricordi. Quelli che io leggo nei libri, quelli che studio a scuola, quelli di mia madre che racconta di quando il suo titolare le chiede di non siglare le lettere con le sue iniziali, B.R., magari di invertirle.
Ecco perché sabato 7 dicembre decido di abbandonare l’ascolto della Tosca alla prima della Scala, giusto pochi attimi prima di “E lucean le stelle”e di andare alla libreria Mondadori per la presentazione del libro di Gianni Oliva, Anni di piombo e di tritolo, con la partecipazione di Alberto Franceschini, ex brigatista pentito, fondatore delle Brigate Rosse. Io questo signore voglio proprio vederlo e sentire cosa ha da dire. Una serata coraggiosa da organizzare e tosta da sostenere da entrambi i lati del tavolo. Inizia il moderatore, professor Luca Scognamillo del liceo Gramsci e passa il microfono a Gianni Oliva che traccia una perfetta sintesi storica di quel periodo: mezz’ora per inquadrare il contesto che portò alla strage di Piazza Fontana e alla nascita del terrorismo nero e rosso. Ci tratteggia un paese da un lato ancora molto arretrato, in cui il solo parlare di sesso prematrimoniale può farti rischiare la galera, e dall’altro lato un progresso industriale tanto rapido da fagocitare tutto e tutti. Ci racconta di un paese oggetto di attenzioni speciali da parte degli Stati Uniti per la vicinanza al blocco sovietico e di ciò che questo abbia comportato in termini di scelte politiche. Ma ci racconta anche di un paese che non ha fatto i conti con il fascismo dopo la fine della guerra e di come per qualcuno questa “dimenticanza” sia un tradimento della Resistenza. Ci racconta di un paese in cui il 68 è arrivato come un lampo e in cui gli slogan scanditi nelle piazze erano fatti di parole forti e taglienti, di come quel linguaggio violento sia alla fine diventato violenza agita.
Dopo tocca a lui, all’ospite scomodo. Lucido e misurato Franceschini cerca di farci capire il suo senso di allora e di ribadire il suo odierno distacco. Le parole non escono fluide come quelle di Oliva, faticano a trovare il modo di porre distanza tra la ragione di un tempo e quella di oggi. Ci racconta che lui e gli altri del gruppo avevano deciso di dare azione alle parole, di mettere in pratica ciò che scandivano gli slogan gridati nelle piazze. Ma la conclusione è ciò che credo tutti volessimo sentire, cioè la ferma condanna della violenza. Il suo pentimento. Straniante trovare un raccordo tra l’uomo anziano, esile e dimesso che mi è di fronte e il ragazzo determinato e spavaldo visto nelle foto d’archivio dell’epoca. Poi partono le domande dal pubblico: c’è chi ricorda la Milano degli anni 60, chi chiede piccole delucidazioni e chi si alza in piedi e tremando legge dei fogli nei quali è riassunta la storia del marito, vittima del terrorismo (uno dei professori della Scuola di Amministrazione Aziendale di Torino, gambizzato nell’attentato del 12 dicembre del 1979). La signora chiede che la parola sia data alle vittime e non ai carnefici, ribadisce di non volerne pronunciare neanche i nomi. E’ toccante, certo. Siamo emotivamente vicini a lei e a chi, come lei, ha vissuto quell’esperienza. Ma siamo anche lì per capire. E capire non significa giustificare. Capire è importante per imparare a non ripetere gli errori. Chi meglio di colui che certe decisioni le ha prese, può spiegarci e farci capire? Ora è un uomo libero, ha scontato la sua pena. Non lo compatisco, ma lo rispetto. Rispetto la dignità del suo coraggio. Non è da tutti cambiare idea e riconoscere i propri errori. Soprattutto quando hanno prodotto così tanto dolore.
Anche Gianni Oliva gli fa due domande, lui risponde in maniera schietta e precisa. Ci tiene a precisare che fui lui a decidere di liberare il giudice Mario Sossi (morto due giorni fa), sequestrato per chiedere il rilascio di alcuni detenuti appartenenti al gruppo XXII Ottobre. In effetti Franceschini fu arrestato con Curcio nel 1974, prima che la linea dell’omicidio prendesse il sopravvento (fu una telefonata del dott, Enrico Levati ad informare Mario Moretti dell’imminente arresto e pare che quest’ultimo non riuscì o non volle avvisare Franceschini e Curcio).
Non sappiamo quasi nulla del libro quando ci viene detto che la serata è finita. Sappiamo che narra i fatti avvenuti da Piazza Fontana, nel 1969, fino all’assassinio Ruffilli, da parte delle Brigate Rosse, nel 1988. Lo leggeremo. Ci alziamo. La mia sensazione è di essere stata testimone di un importante appuntamento con la storia, uno di quei rari momenti in cui si ha l’occasione di interrogarne dal vivo i protagonisti. Un po’ come se mi fossi trovata in treno nello stesso scompartimento con Robespierre e avessi potuto sentirlo spiegare perché tagliare tante teste.
Bisognerebbe organizzare molte più serate come questa. Esco e torno a casa. E nel naso risento quell’acre profumo di asfalto bollente. Per un attimo sono di nuovo sul balcone in una calda sera di luglio, ho 9 anni e aspetto che il mio amichetto Alain torni dal parco.